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Geografia del caso Moro
Parte II - I 55 giorni

Aldo Moro è a via Montalcini, è tenuto prigioniero in un piccolo vano ricavato all'interno del soggiorno, una sorta di cella in muratura allestita alle spalle di una libreria.
I suoi carcerieri sono tre: Prospero Gallinari, emiliano, storico esponente dell'organizzazione e parte del gruppo presente in via Fani; Anna Laura Braghetti, romana, incensurata, brigatista irregolare a cui è stato intestato l'appartamento, che ogni mattina esce per andare a lavoro; Germano Maccari, anche lui romano, ex appartenente a Potere Operaio, entrato da poco più di un anno nelle Brigate Rosse e incaricato di un ruolo di facciata, quello di marito della proprietaria dell'appartamento. Oltre a loro, il solo a conoscere il luogo della prigionia di Moro è Mario Moretti, membro del comitato esecutivo, che conduce gli interrogatori al Presidente ma che non vive in via Montalcini.

Lo stesso 16 marzo, poco dopo le 10 di mattina, già nelle prime ricognizioni di polizia viene ritrovata in via Licinio Calvo, a poche centinaia di metri da Piazza Madonna del Cenacolo, la Fiat 132 sulla quale Moro era stato sequestrato a via Fani. Nella stessa via, in momenti diversi, saranno ritrovate anche le due Fiat 128, una nella notte tra il 16 e il 17 marzo e una la mattina del 19 marzo. Secondo la versione brigatista le tre auto sono state lasciate tutte nello stesso momento, e sarebbe perciò da attribuire a una ricerca superficiale la loro mancata individuazione. Il ritrovamento a singhiozzo ha fatto nascere alcuni sospetti, in particolare sull'ipotetica presenza in zona di una base con posto auto, da dove sarebbero state fatte uscire a intervalli regolari le automobili. Particolare attenzione viene rivolta, soprattutto negli ultimi anni, a un condominio in via Massimi 91, nel cui garage potrebbe aver avuto luogo il trasbordo dalla 132 al furgone; qui sarebbero potute rimanere le due Fiat 128 in attesa di essere fatte ritrovare. Alcuni si spingono a sospettare addirittura la reclusione di Moro proprio in via Massimi. A questo proposito però sembra davvero improbabile, se non assurdo, che le auto venissero lasciate così vicino a una eventuale base brigatista. È poi ugualmente improbabile, perché contrario a ogni regola di sicurezza, anche il rilascio delle automobili in tre fasi diverse nella stessa via; rimane difficile immaginare i motivi di questa scelta. È invece assodata la presenza di Prospero Gallinari in un appartamento proprio di via Massimi 91 dopo e solo dopo la conclusione del sequestro Moro, in seguito alla dismissione della base di via Montalcini. Gallinari sarà però ospite di due persone non appartenenti alle Brigate Rosse, in via Massimi non c'è quindi nessuna base e in ogni caso sarebbe abbastanza strano rimanerci a sequestro concluso.

Piazza del Viminale

Già nella mattinata del 16 il nuovo Ministro degli Interni, Francesco Cossiga, adotta le prime misure di coordinamento delle attività investigative. Viene costituito presso il Ministero un comitato tecnico-operativo presieduto direttamente dal Ministro, che vede la partecipazione dei vertici dei Servizi Segreti, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e del capo della Polizia, oltre a vari esperti criminologi, psicologi e grafologi. Ne farà parte per alcuni giorni, dal 7 Aprile, anche un emissario del governo statunitense: Steve Pieczenick. Nonostante sia appurato che le riunioni siano continuate per tutta la durata del sequestro, con il passare dei giorni esso assumerà un aspetto sempre meno formale, al punto che dal 3 Aprile in poi non verranno più redatti verbali né prodotta alcuna documentazione. Da questo comitato emergono alcune delle strategie poi effettivamente attuate nella gestione della crisi, in particolare dal punto di vista mediatico. Uno degli esempi più significativi riguarda la gestione delle moltissime lettere inviate da Aldo Moro durante i 55 giorni: esse vengono fin dal principio considerate non moralmente ascrivibili allo statista, che sarà ripetutamente definito "sedato" e "manipolato" in una più generale strategia di riduzione del “valore” politico intrinseco dell'ostaggio. Questo sarà un aspetto decisivo e ricorrente in tutta la vicenda: la strategia avrà successo nell'indebolire l'iniziale posizione di forza delle Brigate Rosse e allo stesso tempo sarà determinante per la vita di Moro, rendendogli di fatto impossibile condurre un qualche tipo di trattativa per la propria liberazione.

Largo di Torre Argentina - 18 marzo

Il 18 marzo viene diffuso il primo comunicato delle Brigate Rosse sul sequestro. Viene lasciato dietro una cabina per foto tessere, in un sottopassaggio (oggi non più esistente) e recuperato da un giornalista de Il Messaggero avvisato da una telefonata anonima. Contiene una lunga rivendicazione e una polaroid che ritrae Aldo Moro vivo.

Via Montenevoso, Milano - 18 marzo

Vengono uccisi a colpi di pistola Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, entrambi di diciotto anni e frequentatori del centro sociale Leoncavallo. L'agguato avviene in via Mancinelli, mentre i due giovani si stanno dirigendo verso casa di Tinelli, in un piccolo palazzo di via Montenevoso, al numero 9. Vengono raccolti numerosi indizi a carico di alcuni esponenti dell'estrema destra, romani e cremonesi, ma la mancanza di prove certe e di un chiaro movente non ha permesso alcuna condanna. Nel comunicato numero 2, diffuso alcuni giorni dopo, le Brigate Rosse li definiranno «assassinati dai sicari di regime».

Via Pio Foà

Durante il sequestro le Brigate Rosse diffonderanno nove comunicati, elaborati dal comitato esecutivo e poi fotocopiati in un locale adibito a tipografia in via Pio Foà 31, nel quartiere Monteverde. La tipografia è gestita da Enrico Triaca e da Antonio Marini, membri irregolari delle BR, e assumerà una notevole importanza nelle ritardatarie indagini sulla colonna romana delle BR. Il 19 maggio infatti, dieci giorni dopo l'uccisione di Moro, l'arresto, dopo un lungo pedinamento di Triaca, porta alla scoperta del locale e di tutto il materiale clandestino al suo interno. Successivamente Triaca verrà sottoposto interrogatorio e torturato in un luogo nascosto; le sue confessioni porteranno in pochissimi giorni alla scoperta della base di via Palombini 19, dove vive Marini. Solo dalle dichiarazioni di Triaca gli inquirenti arriveranno a comprendere il ruolo di Mario Moretti nel sequestro Moro: in precedenza il massimo esponente delle Brigate Rosse era “semplicemente” ricercato per banda armata.

Già dal 16 marzo la posizione del Partito Comunista Italiano, la cui sede si trova in via delle Botteghe Oscure, è chiara; il segretario Berlinguer viene ricevuto dal Presidente del Consiglio Andreotti e comunica la sua decisione: «impedire qualsiasi trattativa». Si delinea quindi un variegato fronte della fermezza, contrario a qualsiasi tipo di legittimazione dei terroristi. All'interno di questo fronte il ruolo di guida lo ha senza dubbio il Partito Comunista, che individua nell'azione delle Brigate Rosse un attacco al compromesso storico e che sente ancora la necessità di dimostrare quel senso dello stato che in qualche forma gli veniva negato. È il PCI a giocare un ruolo fondamentale nel costringere all'intransigenza la Democrazia Cristiana (che non poteva certo dimostrare meno senso delle istituzioni) impedendo il crescere al suo interno di pulsioni possibiliste nei confronti della trattativa. Lungo l'arco dei 55 giorni la scelta della fermezza sarà ribadita più volte, temendo sia le iniziative della famiglia Moro che una possibile apertura di alcune correnti democristiane.

Anche la DC, dalla sede di Piazza del Gesù, manifesta immediatamente, per voce di Andreotti la propria posizione. In accordo con i segretari degli altri partiti di maggioranza, la ragione di Stato viene considerata il punto di riferimento della linea della fermezza e tutti concordano sul non mostrare alcun segno di cedimento nei confronti delle Brigate Rosse. Questa posizione subirà qualche minimo cedimento col passare dei giorni, ma solo in alcune componenti (quella di Moro, ovviamente, e quella relativa a Fanfani); a livello di comunicazione pubblica tuttavia sia il partito che il governo a maggioranza DC si dimostrano irremovibili. In questo ha certamente avuto un ruolo importante la sponda con il Partito Comunista e la possibilità di rompere l'alleanza di governo appena nata: il partito di Moro non intende apparire come il "partito dello scambio", quello che deroga alle leggi pur di salvare un proprio rappresentante, oltretutto dopo la morte di cinque uomini dello Stato.

Via Zandonai

L'uccisione dei cinque uomini della scorta di Moro rappresenta evidentemente un ostacolo a una possibile trattativa; è infatti più complicato immaginare un riconoscimento politico o uno scambio di prigionieri con i responsabili di così tante morti. Anche per questo motivo, il piano originario del sequestro non prevedeva nessun conflitto a fuoco con la scorta dell'onorevole. La prima idea delle Brigate Rosse era infatti quella di rapire Moro all'interno della chiesa di Santa Chiara, in piazza dei Giuochi Delfici, dove pregava praticamente tutte le mattine. All'interno della chiesa Moro veniva seguito solo da un uomo della scorta, mentre gli altri quattro rimanevano in attesa sulle scale esterne: sarebbe stato quindi possibile immobilizzare quell'unico agente e portare via lo statista attraverso la porta sul retro, che conduce in via Zandonai. Il piano era già stato approntato anche per quel che riguardava la fuga fino alla prigione. Il convoglio con le due macchine avrebbe dovuto percorrere tutta via Zandonai fino alla fine, entrare con una chiave falsificata in un compresorio privata, attraversarlo e sbucare in via della Cammilluccia e facendo così perdere le proprie tracce in pochissimi minuti. Questo primo progetto viene però abbandonata per la presenza di una scuola molto frequentata proprio su via Zandonai, che avrebbe significato un altissimo rischio di coinvolgimento di civili in un'eventuale sparatoria; la presenza di vittima civile avrebbe indebolito fortemente la portata politica del sequestro.

Via Provvidenza, Zappolino (BO) - 2 aprile

In un casale di campagna in località Zappolino (a circa 30 km da Bologna) un gruppo di giovani professori universitari, tra cui Romano Prodi, Mario Baldassarri e Alberto Clò (proprietario di casa), si ritrova una domenica pomeriggio in compagnia delle proprie famiglie. Secondo la versione dei presenti si decide, per gioco, di inscenare una seduta medianica e chiedere agli spiriti di alcuni democristiani del passato (Sturzo e La Pira) dove sia rinchiuso l'onorevole Moro. La risposta, scaturita dal movimento di un piattino, è composta dalle parole "Viterbo", "Bolsena" e "Gradoli" (quest'ultima ripetuta svariate volte), parole che sembrano indicare proprio il paese di Gradoli, affacciato sul lago di Bolsena, nel viterbese. Colpito dall'episodio, Romano Prodi, vicino ad ambienti democristiani, informa i collaboratori del ministro Cossiga: dopo pochi giorni la Polizia effettua numerose perquisizioni nella località e nelle zone circostanti, senza risultato.

Piazza Giuseppe Gioacchino Belli, Roma - 18 aprile

Il 18 aprile è probabilmente la giornata dalla dinamica più oscura di tutto il sequestro.
Attraverso una telefonata anonima alla redazione de il Messaggero viene fatto ritrovare in piazza Belli un volantino intitolato "Brigate Rosse, comunicato n. 7". Con esso viene annunciata l'esecuzione di Aldo Moro mediante «suicidio» e il conseguente occultamento del cadavere nel Lago della Duchessa, un lago di altura al confine tra Lazio e Abruzzo. Il volantino presenta alcuni tratti di somiglianza con gli altri comunicati delle Brigate Rosse, ma nel complesso è evidentemente falso sia per il tono, beffardo e ironico, sia per l'uso delle spaziature, degli accenti e delle sottolineature. Nonostante queste caratteristiche, inizia una complessa spedizione di ricerca del corpo di Moro: il Lago della Duchessa (1788 m. sul livello del mare) è infatti raggiungibile soltanto in elicottero (la quantità di neve impedisce la viabilità terrestre) e per perforare lo spesso strato di ghiaccio che lo ricopre sono necessarie esplosioni controllate dagli artificieri. Il corpo non viene ritrovato. Ancora oggi non si hanno certezze su chi abbia realizzato questa falsificazione: l'ipotesi più accreditata indica come esecutore materiale Tony Chicchiarelli (un falsario di opere d'arte legato alla cosiddetta Banda della Magliana), non sono però mai emerse le motivazioni. Una prova mediatica dei Servizi Segreti per testare la reazione dell'opinione pubblica alla morte di Moro? Una comunicazione indiretta di apparati dello stato alle Brigate Rosse su un sostanziale disinteresse nei confronti della vita dell'ostaggio?
A questo finto comunicato le Brigate Rosse risponderanno due giorni dopo con il vero comunicato numero 7, chiamando in causa il Presidente del Consiglio Andreotti, responsabile secondo loro della falsificazione, inviando la celebre foto del prigioniero con in mano una copia del quotidiano la Repubblica e chiedendo uno scambio di prigionieri politici con un ultimatum di 48 ore.

Via Gradoli – 18 aprile

Contemporaneamente al ritrovamento del falso comunicato, a causa di una perdita d'acqua e del conseguente intervento dei vigili del fuoco, viene scoperta la più importante base romana delle Brigate Rosse. In via Gradoli, una traversa della via Cassia, vivono infatti Barbara Balzerani e soprattutto Mario Moretti, colui che quasi ogni mattina si reca in via Montalcini per interrogare Moro; al momento della scoperta i due non sono in casa. La palazzina era già stata superficialmente perquisita il 18 marzo, ma gli agenti di polizia non forzarono le porte d'ingresso degli appartamenti in cui nessuno dava segni di risposta. Il magistrato che indaga sul sequestro viene avvertito con molto ritardo ma nel frattempo, dopo l'arrivo dei pompieri, la notizia si diffonde rapidamente e insieme alle prime volanti della polizia arrivano curiosi, telecamere e giornalisti. Assume così tutt'altra prospettiva la seduta medianica di pochi giorni prima, da cui era uscito proprio il termine "Gradoli". Se l'infiltrazione d'acqua sia stata casuale o in qualche modo indotta per favorire la scoperta, è difficile saperlo, quello che è invece piuttosto chiaro è che qualche informazione su questa base fosse filtrata fuori dalle Brigate Rosse, seppur in maniera un po' rocambolesca. La fonte dell'informazione arrivata a Zappolino non è stata mai appurata.

Città del Vaticano – 22 aprile

Alla scadenza dell'ultimatum brigatista, e in risposta a una richiesta d'aiuto scritta dello stesso Moro, Papa Paolo VI rivolge un sentito ma cauto appello agli «uomini delle Brigate Rosse», chiedendo «in ginocchio» la liberazione di Aldo Moro «semplicemente senza condizioni». Il testo dell'appello risulta di scarso impatto, l'espressione «senza condizioni» rappresenta per la famiglia Moro una grande delusione. Anche l'onorevole prigioniero sa benissimo che un appello del genere è troppo poco per i suoi carcerieri, che sono messi all'angolo dal perdurare della fermezza dello Stato, e che l'esecuzione della sua condanna a morte si avvicina.

Viene diffuso il comunicato numero 8. Le Brigate Rosse chiedono la liberazione di tredici carcerati di area comunista per uno scambio di prigionieri politici. Il testo è rivolto non al governo o alle istituzioni ma, per la prima volta, direttamente alla Democrazia Cristiana (individuata come possibile punto debole del fronte della fermezza) e vi si specifica che in caso di risposta negativa non si ripeterà il rilascio unilaterale del prigioniero come nel caso del giudice Sossi (sequestrato e poi rilasciato, nel 1974, in seguito alla promessa - poi non mantenuta - di liberare di alcuni carcerati).
Insieme al comunicato viene diffusa una lettera dell'ostaggio al segretario DC Zaccagnini, in cui Moro si rivolge a tutta la direzione del partito. « Dev’esser chiaro che politicamente il tema non e’ quello della pieta’ umana,ma dello scambio di alcuni prigionieri ». Moro scrive di non riconoscersi più nel suo partito, dove non ci sono piu’ « intelligenti sottigliezze, robuste argomentazioni, sintesi politica ». Per questa « evidente incompatibilita », esprime la volontà che ai suoi funerali non partecipino ne’ autorità dello Stato ne’ uomini di partito.
Sia la richiesta delle BR che quella di Moro rimangono inascoltate. La DC, riunita nella sede piu riservata di via della Camilluccia, non vuole o non può andare oltre una serie di accorati appelli per la liberazione.

Bettino Craxi, segretario del Partito Socialista, rilascia una breve dichiarazione in cui chiede di esplorare tutte le strade per liberare il presidente democristiano. Parallelamente nella sede di via del Corso alcuni esponenti del partito si incontrano con l'avvocato Guiso, molto vicino alle Brigate Rosse, per capire quali spazi reali di trattativa sussistano. Che sia per opportunità politica o per ragioni umanitarie si tratta della prima crepa nel fronte della fermezza.

Via dei Salumi

Si stabilisce un contatto tra alcuni rappresentanti del Partito Socialista (in particolare Claudio Signorile) e alcuni esponenti di Potere Operaio (Lanfranco Pace e Franco Piperno), considerati in grado di intercedere su alcuni membri delle Brigate Rosse. Pace e Piperno si incontrano più volte con Valerio Morucci e Adriana Faranda, figure di spicco della colonna romana delle BR (sono i responsabili della trasmissione dei comunicati e delle lettere di Moro), e tra i pochi contrari all'uccisione dell'ostaggio, che fanno da tramite con Mario Moretti e il comitato esecutivo brigatista. Uno di questi incontri ha probabilmente luogo in via dei Salumi, a Trastevere, in un ristorante. Ad ogni modo non si va oltre i primi contatti esplorativi sia per ragioni pratiche che per questioni politiche (le BR si rivolgono alla Democrazia Cristiana e al governo, non al Partito Socialista), e una trattativa vera e propria non avrà mai luogo.

Stazione Termini - 30 aprile

Contrariamente a quanto spesso si sente dire, Moretti sa benissimo che una conclusione tragica della vicenda non sarebbe un vantaggio per le Brigate Rosse. Infatti, nonostante il comitato esecutivo e la maggioranza dei militanti delle BR siano per l'uccisione di Moro, si prende la responsabilità di temporeggiare ancora e, pur consapevole di venire intercettato dalla polizia, il 30 aprile telefona a casa Moro. Da una cabina telefonica davanti alla stazione Termini chiede alla moglie dell'onorevole (scambiandola per la figlia) di rivolgersi a Benigno Zaccagnini (segretario della DC) facendo capire che le Brigate Rosse potrebbero accontentarsi di una dichiarazione di apertura politica da parte del partito. Anche questa mossa, però, non sortisce gli effetti sperati.

Audio: Moretti 30 aprile 1978

Piazza Barberini - 4 maggio

Il comitato esecutivo brigatista decide che lo Stato sta solo prendendo tempo in attesa di individuare la prigione e decide per l'uccisione di Aldo Moro. A piazza Barberini Mario Moretti lo comunica ai dirigenti della colonna romana Barbara Balzerani, Bruno Seghetti, Valerio Morucci e Adriana Faranda. La contrarietà degli ultimi due è forte ma isolata, la maggioranza dei militanti delle BR si è espressa per eseguire la sentenza di condanna a morte. Morucci e Faranda sono contrari sia per ragioni politiche (considerano il rilascio del prigioniero, o il mantenimento dell'attesa, più utile alla lotta armata) sia per ragioni umanitarie. Ma Moretti e gli altri, pur non considerando l'uccisione di Moro come una vittoria, e pur consapevoli che la risposta dello Stato sarà molto più dura che in passato, ritengono che temporeggiare non abbia più senso. Viene fatto ritrovare il comunicato numero 9, il più duro, che accusa la Democrazia Cristiana di essere responsabile dell'epilogo della vicenda, avendo rifiutato lo scambio di prigionieri. «Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato».

In via Chiabrera, nel quartiere San Paolo, si trova un'altra importante base brigatista. È probabilmente la prigione scelta per tenere Aldo Moro nel caso in cui qualcosa il 16 Marzo fosse andato storto. Durante il sequestro è abitata da Morucci e Faranda, è qui che si svolgono le riunioni di colonna e qui si mettono a punto le modalità di rilascio del corpo del presidente DC.

La mattina del 9 Maggio Aldo Moro viene fatto vestire con l'abito che indossava il giorno del sequestro, viene chiuso in una cesta di vimini e portato nel garage dell'appartamento. Lì è stata portata una Renault 4 rossa rubata mesi prima. Moro viene fatto sedere nel portabagagli e ucciso con ogni probabilità da Mario Moretti con l'aiuto di Germano Maccari, che lo accompagna e gli passa una mitraglietta quando una prima pistola si inceppa. I due poi coprono il corpo di Aldo Moro con una coperta e si dirigono verso il centro di Roma, dove ne è previsto il rilascio. Dopo diversi chilometri di percorso, passando per via della Magliana, piazzale della Radio e Ponte Testaccio, la Renault rossa si incontra in piazza di Monte Savello con un'altra automobile con funzioni di copertura. Le due macchine si dirigono verso via Caetani, a pochi metri di distanza dalle sedi di Democrazia Cristiana e Partito Comunista, dove la Renault viene parcheggiata e abbandonata. Qualche ora dopo Valerio Morucci telefona al professor Franco Tritto, amico e collega di Moro, per comunicargli l'ubicazione del corpo.

Audio: Morucci 9 maggio 1978

Via Montenevoso 8, Milano – 1 ottobre 1978 / 9 ottobre 1990

Il primo ottobre 1978, pochi mesi dopo l'epilogo del sequestro, un reparto speciale dei carabinieri fa irruzione in un appartamento di via Montenevoso numero 8, arresta tre brigatisti e soprattutto sequestra le lettere e gli scritti di Aldo Moro redatti durante la prigionia, arrivati nella base da pochissimo tempo. L'indagine sulla base BR è durata diversi mesi e ha avuto come fattore detreminante l'osservazione continua dell'appartamento, effettuata a partire dal mese di luglio 1978, da una mansarda del palazzo di fronte, il numero 9, l'edificio dove abitava Fausto Tinelli. Secondo la madre del ragazzo, però, le attività nella mansarda iniziano alcuni mesi prima, già a gennaio. Il rapporto con il caso Moro, geografico e temporale, è probabilmente da attribuire a una semplice coincidenza, ma le circostanze della morte di Fausto e Iaio non verranno mai del tutto chiarite, e con loro i forti indizi sul coinvolgimento di alcuni esponenti dell'estrema destra eversiva romana, poi asssolti per insufficienza di prove e in rapporti accertati con agenti dei servizi segreti.

Il 9 ottobre 1990, sempre al numero 8, nello stesso appartamento di dodici anni prima, durante alcuni lavori di ristrutturazione viene ritrovata, nascosta nell'intercapedine di una finestra, un'ulteriore parte del cosiddetto "memoriale Moro", di cui non si conosceva l'esistenza.

È opinione comune che la dinamica del sequestro e i reali mandanti non siano ancora chiari, io non sono d'accordo, esistono confessioni, ricostruzioni circostanziate largamente credibili e la grande maggioranza dei responsabili ha scontato anni di carcere. Certo, restano delle zone d'ombra, su tutte il funzionamento degli apparati di antiterrorismo, estremamente efficace nel contrastare le Brigate Rosse fino al 1975 e decisamente meno da quel momento in poi. Sarebbe però miope e parziale concentrarsi solo su questo, inseguendo ipotetiche eterodirezioni del sequestro, senza contemporaneamente studiare il contesto in cui esso è avvenuto, la realtà storica di quello scontro sociale e le molteplici cause che hanno condotto alla parentesi tragica della lotta armata in Italia.

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Geografia del sequestro Moro

parte II - I 55 giorni

Aldo Moro è a via Montalcini, è tenuto prigioniero in un piccolo vano ricavato all'interno del soggiorno, una sorta di cella in muratura allestita alle spalle di una libreria.
I suoi carcerieri sono tre: Prospero Gallinari, emiliano, storico esponente dell'organizzazione e parte del gruppo presente in via Fani; Anna Laura Braghetti, romana, incensurata, brigatista irregolare a cui è stato intestato l'appartamento, che ogni mattina esce per andare a lavoro; Germano Maccari, anche lui romano, ex appartenente a Potere Operaio, entrato da poco più di un anno nelle Brigate Rosse e incaricato di un ruolo di facciata, quello di marito della proprietaria dell'appartamento. Oltre a loro, il solo a conoscere il luogo della prigionia di Moro è Mario Moretti, membro del comitato esecutivo, che conduce gli interrogatori al Presidente ma che non vive in via Montalcini.

Lo stesso 16 marzo, poco dopo le 10 di mattina, già nelle prime ricognizioni di polizia viene ritrovata in via Licinio Calvo, a poche centinaia di metri da Piazza Madonna del Cenacolo, la Fiat 132 sulla quale Moro era stato sequestrato a via Fani. Nella stessa via, in momenti diversi, saranno ritrovate anche le due Fiat 128, una nella notte tra il 16 e il 17 marzo e una la mattina del 19 marzo. Secondo la versione brigatista le tre auto sono state lasciate tutte nello stesso momento, e sarebbe perciò da attribuire a una ricerca superficiale la loro mancata individuazione. Il ritrovamento a singhiozzo ha fatto nascere alcuni sospetti, in particolare sull'ipotetica presenza in zona di una base con posto auto, da dove sarebbero state fatte uscire a intervalli regolari le automobili. Particolare attenzione viene rivolta, soprattutto negli ultimi anni, a un condominio in via Massimi 91, nel cui garage potrebbe aver avuto luogo il trasbordo dalla 132 al furgone; qui sarebbero potute rimanere le due Fiat 128 in attesa di essere fatte ritrovare. Alcuni si spingono a sospettare addirittura la reclusione di Moro proprio in via Massimi. A questo proposito però sembra davvero improbabile, se non assurdo, che le auto venissero lasciate così vicino a una eventuale base brigatista. È poi ugualmente improbabile, perché contrario a ogni regola di sicurezza, anche il rilascio delle automobili in tre fasi diverse nella stessa via; rimane difficile immaginare i motivi di questa scelta. È invece assodata la presenza di Prospero Gallinari in un appartamento proprio di via Massimi 91 dopo e solo dopo la conclusione del sequestro Moro, in seguito alla dismissione della base di via Montalcini. Gallinari sarà però ospite di due persone non appartenenti alle Brigate Rosse, in via Massimi non c'è quindi nessuna base e in ogni caso sarebbe abbastanza strano rimanerci a sequestro concluso.

Piazza del Viminale

Già nella mattinata del 16 il nuovo Ministro degli Interni, Francesco Cossiga, adotta le prime misure di coordinamento delle attività investigative. Viene costituito presso il Ministero un comitato tecnico-operativo presieduto direttamente dal Ministro, che vede la partecipazione dei vertici dei Servizi Segreti, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e del capo della Polizia, oltre a vari esperti criminologi, psicologi e grafologi. Ne farà parte per alcuni giorni, dal 7 Aprile, anche un emissario del governo statunitense: Steve Pieczenick. Nonostante sia appurato che le riunioni siano continuate per tutta la durata del sequestro, con il passare dei giorni esso assumerà un aspetto sempre meno formale, al punto che dal 3 Aprile in poi non verranno più redatti verbali né prodotta alcuna documentazione. Da questo comitato emergono alcune delle strategie poi effettivamente attuate nella gestione della crisi, in particolare dal punto di vista mediatico. Uno degli esempi più significativi riguarda la gestione delle moltissime lettere inviate da Aldo Moro durante i 55 giorni: esse vengono fin dal principio considerate non moralmente ascrivibili allo statista, che sarà ripetutamente definito "sedato" e "manipolato" in una più generale strategia di riduzione del “valore” politico intrinseco dell'ostaggio. Questo sarà un aspetto decisivo e ricorrente in tutta la vicenda: la strategia avrà successo nell'indebolire l'iniziale posizione di forza delle Brigate Rosse e allo stesso tempo sarà determinante per la vita di Moro, rendendogli di fatto impossibile condurre un qualche tipo di trattativa per la propria liberazione.

Largo di Torre Argentina

Il 18 marzo viene diffuso il primo comunicato delle Brigate Rosse sul sequestro. Viene lasciato dietro una cabina per foto tessere, in un sottopassaggio (oggi non più esistente) e recuperato da un giornalista de Il Messaggero avvisato da una telefonata anonima. Contiene una lunga rivendicazione e una polaroid che ritrae Aldo Moro vivo.

Via Montenevoso, Milano - 18 marzo

Vengono uccisi a colpi di pistola Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, entrambi di diciotto anni e frequentatori del centro sociale Leoncavallo. L'agguato avviene in via Mancinelli, mentre i due giovani si stanno dirigendo verso casa di Tinelli, in un piccolo palazzo di via Montenevoso, al numero 9. Vengono raccolti numerosi indizi a carico di alcuni esponenti dell'estrema destra, romani e cremonesi, ma la mancanza di prove certe e di un chiaro movente non ha permesso alcuna condanna. Nel comunicato numero 2, diffuso alcuni giorni dopo, le Brigate Rosse li definiranno «assassinati dai sicari di regime».

Via Pio Foà

Durante il sequestro le Brigate Rosse diffonderanno nove comunicati, elaborati dal comitato esecutivo e poi fotocopiati in un locale adibito a tipografia in via Pio Foà 31, nel quartiere Monteverde. La tipografia è gestita da Enrico Triaca e da Antonio Marini, membri irregolari delle BR, e assumerà una notevole importanza nelle ritardatarie indagini sulla colonna romana delle BR. Il 19 maggio infatti, dieci giorni dopo l'uccisione di Moro, l'arresto, dopo un lungo pedinamento di Triaca, porta alla scoperta del locale e di tutto il materiale clandestino al suo interno. Successivamente Triaca verrà sottoposto interrogatorio e torturato in un luogo nascosto; le sue confessioni porteranno in pochissimi giorni alla scoperta della base di via Palombini 19, dove vive Marini. Solo dalle dichiarazioni di Triaca gli inquirenti arriveranno a comprendere il ruolo di Mario Moretti nel sequestro Moro: in precedenza il massimo esponente delle Brigate Rosse era “semplicemente” ricercato per banda armata.

Già dal 16 marzo la posizione del Partito Comunista Italiano, la cui sede si trova in via delle Botteghe Oscure, è chiara; il segretario Berlinguer viene ricevuto dal Presidente del Consiglio Andreotti e comunica la sua decisione: «impedire qualsiasi trattativa». Si delinea quindi un variegato fronte della fermezza, contrario a qualsiasi tipo di legittimazione dei terroristi. All'interno di questo fronte il ruolo di guida lo ha senza dubbio il Partito Comunista, che individua nell'azione delle Brigate Rosse un attacco al compromesso storico e che sente ancora la necessità di dimostrare quel senso dello stato che in qualche forma gli veniva negato. È il PCI a giocare un ruolo fondamentale nel costringere all'intransigenza la Democrazia Cristiana (che non poteva certo dimostrare meno senso delle istituzioni) impedendo il crescere al suo interno di pulsioni possibiliste nei confronti della trattativa. Lungo l'arco dei 55 giorni la scelta della fermezza sarà ribadita più volte, temendo sia le iniziative della famiglia Moro che una possibile apertura di alcune correnti democristiane.

Anche la DC, dalla sede di Piazza del Gesù, manifesta immediatamente, per voce di Andreotti la propria posizione. In accordo con i segretari degli altri partiti di maggioranza, la ragione di Stato viene considerata il punto di riferimento della linea della fermezza e tutti concordano sul non mostrare alcun segno di cedimento nei confronti delle Brigate Rosse. Questa posizione subirà qualche minimo cedimento col passare dei giorni, ma solo in alcune componenti (quella di Moro, ovviamente, e quella relativa a Fanfani); a livello di comunicazione pubblica tuttavia sia il partito che il governo a maggioranza DC si dimostrano irremovibili. In questo ha certamente avuto un ruolo importante la sponda con il Partito Comunista e la possibilità di rompere l'alleanza di governo appena nata: il partito di Moro non intende apparire come il "partito dello scambio", quello che deroga alle leggi pur di salvare un proprio rappresentante, oltretutto dopo la morte di cinque uomini dello Stato.

Via Zandonai

L'uccisione dei cinque uomini della scorta di Moro rappresenta evidentemente un ostacolo a una possibile trattativa; è infatti più complicato immaginare un riconoscimento politico o uno scambio di prigionieri con i responsabili di così tante morti. Anche per questo motivo, il piano originario del sequestro non prevedeva nessun conflitto a fuoco con la scorta dell'onorevole. La prima idea delle Brigate Rosse era infatti quella di rapire Moro all'interno della chiesa di Santa Chiara, in piazza dei Giuochi Delfici, dove pregava praticamente tutte le mattine. All'interno della chiesa Moro veniva seguito solo da un uomo della scorta, mentre gli altri quattro rimanevano in attesa sulle scale esterne: sarebbe stato quindi possibile immobilizzare quell'unico agente e portare via lo statista attraverso la porta sul retro, che conduce in via Zandonai. Il piano era già stato approntato anche per quel che riguardava la fuga fino alla prigione. Il convoglio con le due macchine avrebbe dovuto percorrere tutta via Zandonai fino alla fine, entrare con una chiave falsificata in un compresorio privata, attraversarlo e sbucare in via della Cammilluccia e facendo così perdere le proprie tracce in pochissimi minuti. Questo primo progetto viene però abbandonata per la presenza di una scuola molto frequentata proprio su via Zandonai, che avrebbe significato un altissimo rischio di coinvolgimento di civili in un'eventuale sparatoria; la presenza di vittima civile avrebbe indebolito fortemente la portata politica del sequestro.

Via Provvidenza, Zappolino (BO) - 2 aprile

In un casale di campagna in località Zappolino (a circa 30 km da Bologna) un gruppo di giovani professori universitari, tra cui Romano Prodi, Mario Baldassarri e Alberto Clò (proprietario di casa), si ritrova una domenica pomeriggio in compagnia delle proprie famiglie. Secondo la versione dei presenti si decide, per gioco, di inscenare una seduta medianica e chiedere agli spiriti di alcuni democristiani del passato (Sturzo e La Pira) dove sia rinchiuso l'onorevole Moro. La risposta, scaturita dal movimento di un piattino, è composta dalle parole "Viterbo", "Bolsena" e "Gradoli" (quest'ultima ripetuta svariate volte), parole che sembrano indicare proprio il paese di Gradoli, affacciato sul lago di Bolsena, nel viterbese. Colpito dall'episodio, Romano Prodi, vicino ad ambienti democristiani, informa i collaboratori del ministro Cossiga: dopo pochi giorni la Polizia effettua numerose perquisizioni nella località e nelle zone circostanti, senza risultato.

Piazza Giuseppe Gioacchino Belli, Roma - 18 aprile

Il 18 aprile è probabilmente la giornata dalla dinamica più oscura di tutto il sequestro.
Attraverso una telefonata anonima alla redazione de il Messaggero viene fatto ritrovare in piazza Belli un volantino intitolato "Brigate Rosse, comunicato n. 7". Con esso viene annunciata l'esecuzione di Aldo Moro mediante «suicidio» e il conseguente occultamento del cadavere nel Lago della Duchessa, un lago di altura al confine tra Lazio e Abruzzo. Il volantino presenta alcuni tratti di somiglianza con gli altri comunicati delle Brigate Rosse, ma nel complesso è evidentemente falso sia per il tono, beffardo e ironico, sia per l'uso delle spaziature, degli accenti e delle sottolineature. Nonostante queste caratteristiche, inizia una complessa spedizione di ricerca del corpo di Moro: il Lago della Duchessa (1788 m. sul livello del mare) è infatti raggiungibile soltanto in elicottero (la quantità di neve impedisce la viabilità terrestre) e per perforare lo spesso strato di ghiaccio che lo ricopre sono necessarie esplosioni controllate dagli artificieri. Il corpo non viene ritrovato. Ancora oggi non si hanno certezze su chi abbia realizzato questa falsificazione: l'ipotesi più accreditata indica come esecutore materiale Tony Chicchiarelli (un falsario di opere d'arte legato alla cosiddetta Banda della Magliana), non sono però mai emerse le motivazioni. Una prova mediatica dei Servizi Segreti per testare la reazione dell'opinione pubblica alla morte di Moro? Una comunicazione indiretta di apparati dello stato alle Brigate Rosse su un sostanziale disinteresse nei confronti della vita dell'ostaggio?
A questo finto comunicato le Brigate Rosse risponderanno due giorni dopo con il vero comunicato numero 7, chiamando in causa il Presidente del Consiglio Andreotti, responsabile secondo loro della falsificazione, inviando la celebre foto del prigioniero con in mano una copia del quotidiano la Repubblica e chiedendo uno scambio di prigionieri politici con un ultimatum di 48 ore.

Via Gradoli – 18 Aprile

Contemporaneamente al ritrovamento del falso comunicato, a causa di una perdita d'acqua e del conseguente intervento dei vigili del fuoco, viene scoperta la più importante base romana delle Brigate Rosse. In via Gradoli, una traversa della via Cassia, vivono infatti Barbara Balzerani e soprattutto Mario Moretti, colui che quasi ogni mattina si reca in via Montalcini per interrogare Moro; al momento della scoperta i due non sono in casa. La palazzina era già stata superficialmente perquisita il 18 marzo, ma gli agenti di polizia non forzarono le porte d'ingresso degli appartamenti in cui nessuno dava segni di risposta. Il magistrato che indaga sul sequestro viene avvertito con molto ritardo ma nel frattempo, dopo l'arrivo dei pompieri, la notizia si diffonde rapidamente e insieme alle prime volanti della polizia arrivano curiosi, telecamere e giornalisti. Assume così tutt'altra prospettiva la seduta medianica di pochi giorni prima, da cui era uscito proprio il termine "Gradoli". Se l'infiltrazione d'acqua sia stata casuale o in qualche modo indotta per favorire la scoperta, è difficile saperlo, quello che è invece piuttosto chiaro è che qualche informazione su questa base fosse filtrata fuori dalle Brigate Rosse, seppur in maniera un po' rocambolesca. La fonte dell'informazione arrivata a Zappolino non è stata mai appurata.

Città del Vaticano – 22 aprile

Alla scadenza dell'ultimatum brigatista, e in risposta a una richiesta d'aiuto scritta dello stesso Moro, Papa Paolo VI rivolge un sentito ma cauto appello agli «uomini delle Brigate Rosse», chiedendo «in ginocchio» la liberazione di Aldo Moro «semplicemente senza condizioni». Il testo dell'appello risulta di scarso impatto, l'espressione «senza condizioni» rappresenta per la famiglia Moro una grande delusione. Anche l'onorevole prigioniero sa benissimo che un appello del genere è troppo poco per i suoi carcerieri, che sono messi all'angolo dal perdurare della fermezza dello Stato, e che l'esecuzione della sua condanna a morte si avvicina.

Viene diffuso il comunicato numero 8. Le Brigate Rosse chiedono la liberazione di tredici carcerati di area comunista per uno scambio di prigionieri politici. Il testo è rivolto non al governo o alle istituzioni ma, per la prima volta, direttamente alla Democrazia Cristiana (individuata come possibile punto debole del fronte della fermezza) e vi si specifica che in caso di risposta negativa non si ripeterà il rilascio unilaterale del prigioniero come nel caso del giudice Sossi (sequestrato e poi rilasciato, nel 1974, in seguito alla promessa - poi non mantenuta - di liberare di alcuni carcerati).
Insieme al comunicato viene diffusa una lettera dell'ostaggio al segretario DC Zaccagnini, in cui Moro si rivolge a tutta la direzione del partito. « Dev’esser chiaro che politicamente il tema non e’ quello della pieta’ umana,ma dello scambio di alcuni prigionieri ». Moro scrive di non riconoscersi più nel suo partito, dove non ci sono piu’ « intelligenti sottigliezze, robuste argomentazioni, sintesi politica ». Per questa « evidente incompatibilita », esprime la volontà che ai suoi funerali non partecipino ne’ autorità dello Stato ne’ uomini di partito.
Sia la richiesta delle BR che quella di Moro rimangono inascoltate. La DC, riunita nella sede piu riservata di via della Camilluccia, non vuole o non può andare oltre una serie di accorati appelli per la liberazione.

Bettino Craxi, segretario del Partito Socialista, rilascia una breve dichiarazione in cui chiede di esplorare tutte le strade per liberare il presidente democristiano. Parallelamente nella sede di via del Corso alcuni esponenti del partito si incontrano con l'avvocato Guiso, molto vicino alle Brigate Rosse, per capire quali spazi reali di trattativa sussistano. Che sia per opportunità politica o per ragioni umanitarie si tratta della prima crepa nel fronte della fermezza.

Via dei Salumi

Si stabilisce un contatto tra alcuni rappresentanti del Partito Socialista (in particolare Claudio Signorile) e alcuni esponenti di Potere Operaio (Lanfranco Pace e Franco Piperno), considerati in grado di intercedere su alcuni membri delle Brigate Rosse. Pace e Piperno si incontrano più volte con Valerio Morucci e Adriana Faranda, figure di spicco della colonna romana delle BR (sono i responsabili della trasmissione dei comunicati e delle lettere di Moro), e tra i pochi contrari all'uccisione dell'ostaggio, che fanno da tramite con Mario Moretti e il comitato esecutivo brigatista. Uno di questi incontri ha probabilmente luogo in via dei Salumi, a Trastevere, in un ristorante. Ad ogni modo non si va oltre i primi contatti esplorativi sia per ragioni pratiche che per questioni politiche (le BR si rivolgono alla Democrazia Cristiana e al governo, non al Partito Socialista), e una trattativa vera e propria non avrà mai luogo.

Stazione Termini - 30 aprile

Contrariamente a quanto spesso si sente dire, Moretti sa benissimo che una conclusione tragica della vicenda non sarebbe un vantaggio per le Brigate Rosse. Infatti, nonostante il comitato esecutivo e la maggioranza dei militanti delle BR siano per l'uccisione di Moro, si prende la responsabilità di temporeggiare ancora e, pur consapevole di venire intercettato dalla polizia, il 30 aprile telefona a casa Moro. Da una cabina telefonica davanti alla stazione Termini chiede alla moglie dell'onorevole (scambiandola per la figlia) di rivolgersi a Benigno Zaccagnini (segretario della DC) facendo capire che le Brigate Rosse potrebbero accontentarsi di una dichiarazione di apertura politica da parte del partito. Anche questa mossa, però, non sortisce gli effetti sperati.

Audio: Moretti 30 aprile 1978

Piazza Barberini - 4 maggio

Il comitato esecutivo brigatista decide che lo Stato sta solo prendendo tempo in attesa di trovare la prigione e decide per l'uccisione di Aldo Moro. A piazza Barberini Mario Moretti lo comunica ai dirigenti della colonna romana Barbara Balzerani, Bruno Seghetti Valerio Morucci e Adriana Faranda. La contrarietà degli ultimi due è forte ma isolata, la maggioranza dei militanti delle BR si è espressa per eseguire la sentenza di condanna a morte. Morucci e Faranda sono contrari sia per ragioni politiche (considerano il rilascio del prigioniero, o il mantenimento dell'attesa, più utile alla lotta armata) sia per ragioni umanitarie. Ma Moretti e gli altri, pure non considerando l'uccisione di Moro come una vittoria, e pur consapevoli che la risposta dello Stato sarà molto più dura che in passato, non ritengono sia più sensato temporeggiare. Viene fatto ritrovare il comunicato n. 9 delle Brigate Rosse, il più duro, che accusa la Democrazia Cristiana di essere responsabile dell'epilogo della vicenda, avendo rifiutato lo scambio di prigionieri. “Concludiamo quindi eseguendo la sentenza cui Aldo Moro è stato condannato”.

In via Chiabrera, nel quartiere San Paolo, si trova un'altra importante base brigatista. È probabilmente la prigione scelta per tenere Aldo Moro nel caso in cui qualcosa il 16 Marzo fosse andato storto. Durante il sequestro è abitata da Morucci e Faranda, è qui che si svolgono le riunioni di colonna e qui si mettono a punto le modalità di rilascio del corpo del presidente DC.

La mattina del 9 Maggio Aldo Moro viene fatto vestire con l'abito che indossava il giorno del sequestro, viene chiuso in una cesta di vimini e portato nel garage dell'appartamento. Lì è stata portata una Renault 4 rossa rubata mesi prima. Moro viene fatto sedere nel portabagagli e ucciso con ogni probabilità da Mario Moretti con l'aiuto di Germano Maccari, che lo accompagna e gli passa una mitraglietta quando una prima pistola si inceppa. I due poi coprono il corpo di Aldo Moro con una coperta e si dirigono verso il centro di Roma, dove ne è previsto il rilascio. Dopo diversi chilometri di percorso, passando per via della Magliana, Piazzale della Radio e Ponte Testaccio, la Renault rossa si incontra in piazza di Monte Savello con un'altra automobile con funzioni di copertura. Le due macchine si dirigono verso via Caetani, a pochi metri di distanza dalle sedi di Democrazia Cristiana e Partito comunista, dove la Renault viene parcheggiata e abbandonata. Qualche ora dopo Valerio Morucci telefona al professor Franco Tritto, amico e collega di Moro, per comunicargli l'ubicazione del corpo.

Audio: Morucci 9 maggio 1978

Via Montenevoso 8, Milano – 1 ottobre 1978 / 9 ottobre 1990

Il primo ottobre 1978, pochi mesi dopo l'epilogo del sequestro, un reparto speciale dei carabinieri fa irruzione in un appartamento di via Montenevoso numero 8, arresta tre brigatisti e soprattutto sequestra le lettere e gli scritti di Aldo Moro redatti durante la prigionia, arrivati nella base da pochissimo tempo. L'indagine sulla base BR è durata diversi mesi e ha avuto come fattore detreminante l'osservazione continua dell'appartamento, effettuata a partire dal mese di luglio 1978, da una mansarda del palazzo di fronte, il numero 9, l'edificio dove abitava Fausto Tinelli. Secondo la madre del ragazzo, però, le attività nella mansarda iniziano alcuni mesi prima, già a gennaio. Il rapporto con il caso Moro, geografico e temporale, è probabilmente da attribuire a una semplice coincidenza, ma le circostanze della morte di Fausto e Iaio non verranno mai del tutto chiarite, e con loro i forti indizi sul coinvolgimento di alcuni esponenti dell'estrema destra eversiva romana, poi asssolti per insufficienza di prove e in rapporti accertati con agenti dei servizi segreti.

Il 9 ottobre 1990, sempre al numero 8, nello stesso appartamento di dodici anni prima, durante alcuni lavori di ristrutturazione viene ritrovata, nascosta nell'intercapedine di una finestra, un'ulteriore parte del cosiddetto "memoriale Moro", di cui non si conosceva l'esistenza.

È opinione comune che la dinamica del sequestro e i reali mandanti non siano ancora chiari, io non sono d'accordo, esistono confessioni, ricostruzioni circostanziate largamente credibili e la grande maggioranza dei responsabili ha scontato anni di carcere. Certo, restano delle zone d'ombra, su tutte il funzionamento degli apparati di antiterrorismo, estremamente efficace nel contrastare le Brigate Rosse fino al 1975 e decisamente meno da quel momento in poi. Sarebbe però miope e parziale concentrarsi solo su questo, inseguendo ipotetiche eterodirezioni del sequestro, senza contemporaneamente studiare il contesto in cui esso è avvenuto, la realtà storica di quello scontro sociale e le molteplici cause che hanno condotto alla parentesi tragica della lotta armata in Italia.

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